Come sapete io sono un grande fan della cottura cbt, ovvero cottura a bassa temperatura, che peraltro è un acronimo inventato da Marco Pirotta e dal sottoscritto mentre facevamo, nella mia cucina, i tre libroni per Reed dedicati a questa tecnica – sono sul mercato e vendono bene, se non li avete cercateli, anche su Amazon.
Sono convinto che questa tecnica conviene SEMPRE a un cuoco professionista perché semplifica la linea, cioè il lavoro preparatorio. Questo detto, a livello di sapore (e a parità di ingredienti), la cottura cbt non è mai inferiore a quella classica, spesso uguale e a volte meglio. Anche molto meglio.
Faccio un esempio esemplare, che io chiamo il paradosso del calamaro: questo spunto me l’ha dato Igles Corelli anni fa. E’ una bestiola che ha una singolare caratteristica: è tenera da cruda, poi in cottura diventa dura e quindi la devi stracuocere per riportarla morbida.
Come mai? La scienza ci dice che se cuoci un calamaro a 65°, non di più, in acqua oligominerale naturale, naturalmente, non in quella di rubinetto che è troppo ricca di ferro che è un catalizzatore che bla bla, le albumine non coagulano ed è appunto la loro coagulazione, che scatta oltre i 65°, a far diventare duro il calamaro.
Fino a ieri, era una cosa che interessava l’industria e non il singolo cuoco, che non aveva la possibilità di controllare perfettamente questa temperatura. Oggi, per un cuoco non serve neanche sapere cosa sono le albumine: deve solo provare, cioè cuocere un calamaro a 65° cbt, cuocere contestualmente un altro calamaro in maniera tradizionale, completarne la cottura come si vuole e poi assaggiare e giudicare il risultato.
Io l’ho fatto tante volte e il risultato è sempre stato innegabile: quello cotto a bassa temperatura era di gran lungo più buono, cotto ma sodo, con una texture particolare.
Bene, ditemi e cercatemi di convincere: oggi perché mai si dovrebbe cuocere un calamaro alla vecchia maniera?